Il femminicidio ed il dolore che esso provoca soprattutto ai familiari delle vittime erano alla base di un convegno svoltosi in Provincia di Venezia il 2 luglio. Tra i relatori l’Avv. Antonio La Scala da anni impegnato nella veste di Presidente dell’Associazione Penelope Italia Onlus a sostegno delle famiglie che hanno subito lutti o la scomparsa di un caro.
E’ l’ultimo, ma il più temuto quello del rintocco della campana. Se ne ha paura, si cerca in ogni modo di eluderlo, ma all’improvviso arriva, anche per mano di qualcuno che decide che sia giunto il momento di farla suonare.
Sono questi i racconti che irrompono nelle nostre case, sono queste le storie che sono state narrate nell’ultimo convegno, cui ho preso parte, sul femminicidio.
Rifuggo dalla classificazione, perché sono contraria a tutto ciò che viene, in un qualche modo, stereotipato, ma soprattutto inorridisco quando il dramma viene “fabulato”.
Programmi che “mimano” le verità nascoste, parole vuote che parlano sempre del contenitore e mai del contenuto ci stanno inevitabilmente conducendo ad occultare le responsabilità rendendoci inabili ed incapaci, perché ciò che sta accadendo è il palese fallimento di ognuno di noi.
E così ci troviamo a sprofondare in una intollerabile condotta ipocrita pensando e sperando di poter, così, espiare le nostre colpe.
Ciechi che guidano altri ciechi, ecco cosa siamo diventati. Ovattiamo la nostra mente per proteggerla dagli urti, ma ci ritroviamo confusi e disorientati, ed ogni luogo diventa un non luogo.
Per anni ci siamo confrontati ad esempio con la stigmatizzazione delle malattie mentali e l’ignoranza che ruota attorno a queste patologie ritorna prepotentemente in auge quando molti aspetti di esse vengono utilizzati per “giustificare” comportamenti delittuosi.
La Società, infatti, vive ancora un blocco culturale quando si confronta con il mondo psichiatrico perché lo ha legato ad un’idea che i malati mentali sono quelle persone senza speranza e portatrici di violenza.
Chi ha ucciso diventa così agli occhi dell’opinione pubblica “incapace di intendere e volere”, quindi un malato mentale. Ed è così che l’ingerenza delle norme affranca dalle responsabilità. Ma questo ormai accade per giustificare chiunque si renda fautore di atti violenti. E io non posso far altro che riconoscermi come vittima cosciente dell’abisso culturale che mi fa inevitabilmente rientrare all’interno di categorizzazioni viziate, definibili, senza remore, come deviate.
Eppure il senso di paura è palpabile, tanto quanto lo è il dolore negli occhi di quegli uomini e di quelle donne, che hanno perso figlie, mamme, sorelle, amiche.
Domande che ricercano conferme forti e vere, in grado di poter rispondere uscendo dalle ingessate prassi imposte dai “protocolli ufficiali”.
Ma una Legge c’è, spiega l’avvocato la Scala, la n°11 del 4 gennaio 2018, che non solo modifica l’art. 577 del codice penale (aggravanti del reato di omicidio), ma tutela i figli minori o maggiorenni non autosufficienti economicamente, rimasti senza un genitore a seguito di un omicidio commesso dall’altro coniuge (anche se convivente o separato). Una vera novità che va a modificare sostanzialmente l’impianto normativo in materia. E perché non viene applicata? Semplicemente perché non la si conosce…..
Ma non sono solo le leggi, non sono solo le punizioni, non è solo quello. Quelle vengono dopo.
Ciò che mi fa paura, terribilmente, è che oggi è normale essere morti. Si avete letto bene: lo troviamo normale perché si parla di morte con la stessa leggerezza con cui si va a mangiare una pizza.
I drammi familiari e gli omicidi entrano prepotentemente nelle nostre case, abituandoci al racconto, quasi fossero favole da raccontare.
Ma la morte non è una favola. Un tempo la morte di una persona cara, raccoglieva attorno al defunto tutta la famiglia (compresi i bambini), parenti, amici, permettendo a tutti di essere presenti, di partecipare al lutto, di elaborarlo.
Oggi se il nonno muore, mancano le parole per dirlo, si evita di portare il bambino al funerale, si fa di tutto perché i piccoli non incontrino neanche il vocabolo della morte.
E mentre ci affanniamo a rimuovere la morte dalla nostra mente e dalla nostra vita, ci viene costantemente propinata dal mondo mediatico.
Le tragedie ci colpiscono solo in piccola parte, non ci riguardano, perché appartengono ad altri.
La morte si trasforma in spettacolo, in favola, in una teatralizzazione dei sentimenti che non tocca affetti profondi, non mette in gioco le relazioni ed il Sé.
Interroga (se interroga) solo le emozioni del momento, si percepiscono, si sentono, ma si sedano in pochissimi secondi dirigendole verso altri stimoli, non concedendo il tempo necessario per elaborarle.
Non c’è lutto, non c’è consapevolezza (o se c’è è frammentata e distorta), non c’è crescita interiore, manca la memoria.
L’aziendalizzazione della vita così come quella della morte ci porta ad inseguire un’apparenza fatta di successo, di bellezza fine a sé stessa, che, inevitabilmente ci porta a negare il limite, la sconfitta e la morte. Negare la morte significa negare la vita.
Per questi motivi coloro che si prodigano per offrire un aiuto concreto devono necessariamente partire da quegli adulti che si trovano a fare i conti con un grande dolore, con lo sgomento, con le reazioni di rabbia e di solitudine, di coloro che rimangono e che vivono circondati dalle “tecnologie della sopravvivenza” e non dall’affetto e dalle lacrime delle persone che le circondano.
Non è possibile applicare un “protocollo standardizzato” che sia uguale per tutti, ognuno è a sé, è riconoscere le differenze è il primo passo che può aiutare le identità.
Purtroppo lo stigma coinvolge anche i professionisti: non è ammissibile parlare di morte, parlare del dolore dei figli, dei parenti, dei genitori, raccontando una ricerca.
Classificare i figli che rimangono senza un genitore a seguito di un omicidio commesso dall’altro, come ORFANI, a mio avviso, significa ricondurli continuamente all’evento luttuoso, facendoli rientrare, inevitabilmente all’interno di un gruppo di diversi. E questo spersonalizza i “pazienti” che aspettano solo di essere riconosciuti come persona.
Quali sono i rischi che si corrono se non si interviene prima sugli adulti?
L’adulto a cui viene affidato il bambino rimasto ormai senza genitori, viene travolto dal dolore, ed il dolore travolge tutto.
Nella smania di assoluta negazione della perdita si nasconde tutta la disperazione, e un disperato non è in grado di proteggere un bambino, ma lo carica di un’angoscia aggiuntiva che il piccolo non è in grado di sopportare.
Il dolore per il bambino diventa un macigno. Le strade verso cui si avvia sono o la depressione, isolando se stesso ed il proprio sentire, o facendosi carico della sofferenza altrui trovandosi ad affrontare il ruolo dell’adulto prima del tempo.
L’altro rischio è che l’adulto voglia a tutti i costi proteggere il bambino dalla sofferenza della perdita, non parlando dell’evento, negandolo, eludendolo.
In tal modo non si fa altro che isolare ancor di più il bambino, portandolo a non riuscire a sentire, a comprendere, a manifestare i propri sentimenti diventando, così, incapace di chiedere aiuto.
Per questo è assolutamente necessario, come un’emergenza in aereo, indossare prima noi la mascherina dell’ossigeno e poi farla indossare a chi ci sta a fianco.
Non possiamo pretendere di aiutare i bambini se per primi noi siamo privi di ossigeno e la nostra vita va a pezzi.
I professionisti dovrebbero essere in grado di incontrare l’altro senza pietismi, ma con gli strumenti della pietas e della dignità, dovrebbero occuparsi non del fatto, quello lo si fa dopo (del contenitore), ma della cosiddetta parte “marginale” o secondaria (del contenuto).
Un gesto diventa utile quando viene riferito ad un valore: e qui ci troviamo di fronte alla richiesto di riconoscimento da parte della Persona.
L’obiettivo è far recuperare una vita di Significato alla Identità sofferente. E se da un lato ci si focalizza sul controllo sintomatico, dall’altro ci si deve focalizzare sulla parte sociale, lavorativa e spirituale.
Diventa indispensabile scardinare il grottesco fabulare che abbiamo acquisito nel raccontare la morte e noi, che ci mettiamo seduti dietro le nostre cattedre o davanti alle platee, abbiamo il dovere di dire la verità ad una società che ce la chiede di diritto.
Abbiamo creato una cultura manicomiale, in cui è diventata normale, e non punita (o per lo meno non in maniera adeguata) la ricorsività a comportamenti alterati che sfociano in reati, mentre diventa trascurabile il buco nero e la disperazione in cui piombano le vittime e i familiari.
Aboliamo dunque le giustificazioni perché non possiamo spiegare e scendere a compromessi con coloro che si rendono autori di comportamenti violenti molto spesso dagli esiti funesti.